“La tua danza deve essere totale,
perché potresti danzare e tuttavia pensare al futuro,
potresti danzare e intanto pensare che domani danzerai di nuovo.
Danza come se questa fosse la tua ultima danza.
Danza con abbandono, senza trattenere nulla.
Ti porterà a una trasformazione dell’essere.
Questo momento è il tuo paradiso.
Dipende tutto da te.
Non hai bisogno di essere un santo per danzare totalmente.
Non hai bisogno di essere un sapiente per danzare totalmente,
non hai bisogno di essere pio per danzare totalmente.
Per danzare totalmente hai solo bisogno di accettare la realtà di questo singolo momento.
Io ti insegno a vivere, ad amare, a danzare, a cantare e a non aspettare.“
Osho
L’insegnamento di Osho
L’insegnamento di Osho non è filosofico, non è una dottrina, il suo approccio è unicamente esperienziale: l’esperienza come unica possibilità per conoscere.
Commentare maestri spirituali di altre epoche, così come filosofi o psicologi, è funzionale a ciò che intende comunicare.
Le sue parole rivelano un’attenzione all’essere e alla contradditorietà della vita, abitualmente appiattita da una mente sistematica.
Non propone un sistema di valori da assumere come modello di vita, né valori assoluti che fanno di un uomo un santo o un peccatore.
Nel suo insegnamento l’esistenza del bello comprende l’esistenza del brutto.
Il sacro e il profano sono astrazioni che vengono eliminate: l’atto sessuale può essere un evento sacro, così come la preghiera di un Papa un atto profano.
Osho ha usato mille espedienti e provocazioni verso i suoi discepoli e verso il mondo. Non tanto per capovolgere i valori costituiti quanto per stimolare un processo di evoluzione della coscienza: dall’esibizione degli status symbol della ricchezza (dalle Rolls agli orologi veri e falsi) alle barzellette volte a sdrammatizzare le parabole edificanti.
Osho ha mostrato una costante attenzione a spezzare ogni possibilità di idealizzazione, di proiezione divina da parte dei sui discepoli:
“Il mio sforzo è rendervi disponibili a tutte le possibilità, e rendere tutte le possibilità disponibili a voi; in modo che possiate muovervi, che possiate cambiare, che possiate scegliere il tempo e il luogo che vi è proprio.
Così un giorno nascerà un’intuizione, e quella intuizione sarà completamente vostra.
Non avrà nulla a che vedere con me. …
Un giorno, una mattina, sorgerete nel vostro stesso essere, attenti ai vostri bisogni, attenti alla vostra direzione. Una volta che la direzione è compresa, riconosciuta, non ci saranno più problemi. Ma bisogna aspettare; ci vuole tempo. E prima che succeda vi dovrò sballottare, rivoltare, dovrò trascinarvi da questo a quel posto.”
Da sempre, in ogni cultura, il rapporto tra ricercatore e Maestro è caratterizzato dal viaggio.
Il cammino, alla ricerca del Maestro, poteva durare anni o mesi, e comportava l’attraversamento, fra mille ostacoli, di terre sconosciute e pericolose. Queste difficoltà, questi ostacoli, nella tradizione dei ricercatori, erano nello stesso tempo stimolo e misura della reale determinazione e volontà a proseguire il percorso.
Nel mondo contemporaneo tutto ciò è scomparso.
E’ possibile il contatto diretto, a poche ore di volo da ogni parte del mondo.
Ecco che, nell’esperienza di molti di noi, le Rolls Royce che lui utilizzava e lo scandalo che i giornali ne facevano, hanno sostituito l’attraversamento di montagne e deserti; le montagne delle nostre proiezioni sugli status symbol dell’ideologia dell’avere e i deserti dei nostri pregiudizi su cosa debba essere la spiritualità.
E tanti di fronte a queste difficoltà si sono fermati ai cancelli dell’ashram, come tanti ricercatori in ogni epoca si sono arresi dopo settimane o mesi di peregrinazioni, rinunciando a raggiungere il Maestro.
Per la cultura occidentale è difficile comprendere il ruolo del Maestro.
Nelle nostre scuole si mette molta più enfasi sui fatti e sugli uomini di azione come Alessandro il Grande, Napoleone o Garibaldi, che non sui maestri di vita e di pensiero come Pitagora, Lao Tzu o Buddha.
Molti occidentali dicono di aver avuto cento maestri e nessun Maestro.
Si riferiscono a insegnanti portatori di un sapere frammentario, in cui ciascuno ha un campo specifico.
Maestro in Occidente è qualcuno che ha qualcosa da insegnare; non così in Oriente, dove il Maestro può essere un ignorante agli occhi di un occidentale, non avere una cultura, ma trasmettere saggezza, energia, vita. Questo è stato, per esempio, il caso di Kabir, un mistico e poeta indiano, semplice tessitore. La trasmissione della sua saggezza è ancora vibrante.
Il fatto che Osho sia un uomo molto colto non è un requisito del suo essere Maestro. Osho definisce la saggezza come il “conoscere la propria consapevolezza e il suo essere altro dalla mente”.
Inoltre in Occidente il rifiuto del Maestro è speculare al rifiuto di riconoscersi discepolo. L’uomo occidentale ha il bisogno di dichiararsi orgogliosamente “maestro di se stesso”, rifiutando lo stato di discepolo.
Curiosamente ‘Swami’, l’appellativo che precede i nomi dei neo-sannyasin, significa ‘maestro di se stesso’, ma nell’accezione di colui che impara a ‘lasciarsi andare’, in un processo che culmina con la presa di coscienza di ciò che in realtà siamo: parte del tutto.
Nelle culture occidentali non è neppure prevista la figura dell’illuminato, cioè della persona che realizza pienamente il proprio essere.
In Occidente l’illuminato lo si pensa come santo, individuo buono, dedito totalmente agli altri, spiritualmente elevato.
Ma l’illuminato ubbidisce più alle leggi della fisica che non a quelle della morale: ha superato le barriere della personalità, in un’espansione e fusione totale con l’esistenza.
Il corpo e l’individualità della persona continuano a esistere come involucri o fatti biologici, ma sono definitivamente spezzate le catene dell’identificazione.
L’essere fuori dal dualismo moralità-immoralità, consente ad Osho di sconvolgere tanto i sistemi sociali, fondati sulla divisione manichea tra comportamenti buoni e comportamenti cattivi, quanto i suoi stessi discepoli, che di questa società sono il prodotto.
Prasad, un suo discepolo psicoterapeuta, ha scritto: “Anche se a volte – perché gli altri lo accettino più facilmente – vorrei farlo, non posso: non posso giustificare le azioni di Osho. Egli agisce libero da ogni necessità di giustificazione. La sua amoralità, la sua mancanza di rispetto per ogni convenzione, è spaventosa. Per me è affascinante e liberatoria.”
Questo modo di essere di Osho ha costituito un ostacolo per molti che erano alla ricerca di un nuovo santo che corrispondesse ai canoni tradizionali.
D’altra parte va ricordato come ogni grande spirito innovatore sia stato sempre osteggiato dai custodi delle fedi acquisite, delle religioni consolidate. Contro ogni manicheismo, contro ogni separazione assoluta tra bene e male, tra corpo e spirito.
Osho ha simbolizzato con l’immagine di “Zorba il Buddha” la sintesi fra materia e spirito. La sintesi di due poli che la cultura occidentale ha vissuto in conflitto o in alternativa. Per Osho, Zorba il Buddha rappresenta l’uomo nuovo, il nuovo ribelle, soggetto di una ribellione che mira ad eliminare la schizofrenia dell’uomo, superando le contrapposizioni tra materia e spirito.
Zorba il Greco, il personaggio di un famoso romanzo di Kazantzakis, rappresenta l’uomo che non conosce, ma che sa ballare, cantare, godersi la vita, che non rinuncia al piacere dei sensi.
Buddha rappresenta colui che vede, che sa, che ha chiarezza di visione e percezione; però non danza, non canta, non gode del suo corpo. Ma come ha detto Osho “Zorba è un personaggio immaginario e Buddha è solo l’aggettivo che indica coloro che si risvegliano.”
Osho si definisce spesso scienziato della coscienza-consapevolezza, ed evidenzia come, al contrario, l’individuo si identifichi spesso con tutte quelle dottrine particolari che si propongono come soluzioni complessive e universali: macrobiotica, yoga, esoterismo superstizioso, salutismo, astrologia, vegetarianismo.
Questo non per negare valore alle singole discipline, ma per rompere il tipo di rapporto totalizzante che i cultori di queste discipline spesso hanno rispetto alle loro scelte.
Osho è un critico radicale di ogni ideologia o credo, e ha spiegato il significato dell’essere vegetariani o del praticare determinate tecniche.
Nelle comuni neo-sannyasin non si fuma se non in un luogo apposito, paradossalmente chiamato ‘smoking temple’ (tempio del fumo), non si mangia carne o pesce.
Se una persona lo vuole deve quindi scegliere di ‘andare a fumare’, se vuole mangiare carne deve scegliere di farlo al di fuori dalla comune.
Ciò che conta è che l’individuo sia cosciente delle proprie azioni, che ne diventi consapevole.
L’obbligare una persona a una disciplina o a un comportamento più sano non trasforma necessariamente la coscienza della persona.
Ci sono persone psicologicamente devastate dall’aver praticato discipline salutiste e intere popolazioni oppresse da religioni o culture sessuorepressive che impongono un determinato stile di vita.
Anche per quanto riguarda le abitudini ovviamente malsane, come fumare, Osho richiama l’attenzione più su come si fa un gesto che non su cosa si faccia: non ha mai condannato nessuno perché fuma o perché mangia carne.
Per ciò che riguarda il fumo egli ha spiegato come sia possibile trasformare anche questo in un momento di meditazione:
“Quando prendi dalla tasca le sigarette, compi ogni gesto lentamente, goditi ogni istante, non c’è fretta. Sii cosciente, attento, consapevole…”
Ciò che importa è riconoscere l’automatismo di questo gesto, mentre il reprimerlo con un atto di volontà forzato può essere controproducente e più dannoso che non il fumo stesso, se il processo non è accompagnato da un reale mutamento di coscienza.
Gradatamente, a volte facendo un passo indietro prima di farne due avanti, può accadere che l’energia si trasformi, che la sensibilità si affini e cada il desiderio del fumo. Accade che sia il corpo a decidere piuttosto che la mente.
Osho parlò tantissimo ai suoi discepoli: tutti i giorni, una o due volte al giorno, dal 1970 all’81 e poi dal 1984 all’89.
Commentò essenzialmente i maestri e le tradizioni del passato: Cristo, Buddha, Eraclito, Pitagora, Patanjali, i Sufi, gli Hassidim, Lao-Tzu …
Con un linguaggio capace di penetrare la cortina di indifferenza ai ‘misteri’ della vita, riesce a raggiungere proprio noi, donne e uomini dell’occidente, educati alla cultura del benessere materiale. Da ognuna di queste strade del passato egli fa emergere il nucleo originario di autentica religiosità, sommerso dagli sviluppi storici delle religioni organizzate, dei credi più o meno istituzionali.
La verità non può essere ridotta a un sistema di dogmi; e le parole non sono certo il veicolo principale.
“Desidero veramente che voi non prendiate le mie parole come vengono abitualmente prese e capite – come se avessero un significato, come se vi trasmettessero delle informazioni.
Io non vi sto insegnando nulla. Non ho alcun messaggio. Non vi sto convertendo…
Va benissimo che la gente mi trovi pieno di contraddizioni, perché solo un banalissimo erudito si preoccupa di dire cose sensate. Al contrario c’è un uomo che parla non per trasmettere conoscenze, bensì poesia, non conoscenze, ma significato, non conoscenze, bensì un profumo, una presenza…
Io non ho nulla da dirvi, ma ho molto da condividere con voi.”
(da “Om Mani Padme Hum “)
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